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PellegriViaggio in Palestina/6

Di Filippo Severino

Al ritorno dal Pellegrinaggio di Comunione e Pace in Terra Santa, Il mio zaino è pieno di incontri, di ricordi, di luoghi, di parole dette e di significativi silenzi. Tra le tante immagini che si affollano alla mente ne scelgo tre.

La prima è quella della mamma di Hersh, giovane israeliano ancora ostaggio di Hamas. Ci dice che recita i salmi due volte al giorno e che senza la fede non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. E’ riconoscente per la nostra presenza in questo particolare momento e avverte la nostra vicinanza, la nostra commozione, la nostra preghiera. Soprattutto, ci dice che tanti di loro si sentono pedine di un gioco che non hanno scelto di giocare, un gioco che è diretto da chi ha i propri interessi. Afferma, e qui è il passaggio più forte ed umano del suo intervento, che non c’è concorrenza nel dolore e si compenetra nella sofferenza di quanto sta vivendo la gente di Gaza. Il dolore di una mamma è il dolore di una mamma, poco importa se sia israeliana o palestinese.

La seconda immagine è quella di Munther, educatore palestinese in un campo profughi di Betlemme. E’ il direttore di un Centro per i giovani del campo ed organizza attività sportive, ricreative, culturali e laboratori di artigianato. L’accesso al campo avviene attraverso un’installazione artistica: un arco di ingresso alla cui sommità è posta un’enorme chiave. E’ il simbolo del diritto al ritorno (che è sancito dal diritto internazionale) nella propria casa, nella propria terra, da parte dei palestinesi costretti a vivere nei campi profughi perché scacciati dall’esercito israeliano con la “nakba”, la distruzione, cominciata nel 1948. E Munther lavora perché questo diritto possa essere riconosciuto, perché non si smarrisca l’identità di un popolo, ma anche perché i giovani del campo non restino imbrigliati nelle pericolose e improduttive spire dell’integralismo e della radicalizzazione. Molto triste è stato, poi, l’apprendere che Munther, proprio lui che contrasta il fascino della reazione violenta, ha recentemente trascorso più di due mesi di prigionia soltanto per aver postato sui social l’immagine di bambini uccisi a Gaza con la domanda: “Non sono bambini anche questi?”.

La terza immagine è quella di un percorso, il percorso che ci ha portati da Emmaus a Neve Shalom. Al santuario di Emmaus abbiamo celebrato l’Eucarestia e, nell’omelia, il nostro Presidente don Giovanni Ricchiuti ha ricordato che i cristiani sono quelli della via, quelli che incontrano, abbracciano, carezzano, si inchinano sulle sofferenze dei propri fratelli e sorelle. Solo così la vita cristiana diventa esperienza del Risorto, ma anche testimonianza di “risorti”. Con queste considerazioni ci siamo recati all’ “Oasi della Pace” (Neve Shalom, in ebraico – Wāħat as-Salām, in arabo). Il villaggio fu fondato dal frate domenicano Bruno Hussar nel 1972 per la pacifica convivenza di famiglie israeliane e palestinesi, di fede cristiana, ebraica e musulmana, e con una scuola dove i bambini appartenenti ai tre gruppi religiosi potessero crescere fraternamente insieme. Tanti di noi ricordano come questa realtà negli anni ’70 e ’80 costituisse un modello e suggerisse fiducia per un percorso di pacificazione tra Israeliani e Palestinesi. Purtroppo alla nostra visita del villaggio non c’era nessuno ad accoglierci, a illustrarci, a esprimere ragioni di speranza. Che la forte motivazione iniziale si sia troppo affievolita? No, non deve essere così, non ora. Con la sconvolgente violenza in atto abbiamo bisogno di segni che suggeriscano la via per una riconciliazione isaeliano-palestinese, riconciliazione che oggi appare quasi impossibile e che è al tempo stesso doverosa e inderogabile.

Noi cristiani, testimoni del Risorto, riprendiamo la strada quali pellegrini e costruttori di pace.